martedì 23 agosto 2011

Il virus balcanico - nono capitolo

Erano passate due settimane dal giorno in cui dovettero per forza maggiore abbandonare la loro città natale a causa della guerra civile che non aveva risparmiato la loro repubblica. Si erano rifugiati dalla nonna materna che viveva a Belgrado perché, a differenza dei molti loro concittadini, avevano la possibilità e qualcuno pronto per ospitarli. Belgrado però non poteva sostituirle Sarajevo nonostante tutti i sforzi dei familiari per farla sentire come se fosse a casa propria. Ogni volta che la vedevano piangere si sentivano male. Avevano cercato di rincuorarla però le loro parole di conforto non aiutavano a Selma di sentirsi meglio. Né riusciva a dimenticare le offese, tutte quelle brutte cose che hanno preceduto la loro partenza da Sarajevo. L’unica cosa che poteva fare era continuare con la propria vita che non era più la vita. Era un brutto sogno che non aveva la fine.
Era già morta quel giorno in cui l’uomo che amava le aveva detto che era un miscuglio,  che non era più la donna che avrebbe potuto sposare e che non avrebbe voluto vederla mai più. Il cuore aveva smesso di batterle quando la madre le aveva confessato che avevano minacciato di massacrare lei stessa, il marito e la figlia se non avrebbero lasciato la città. Quella notte stessa hanno preso tutto l’occorrente se ne sono andati. Col primo impulso, hanno pensato di nascondersi dallo zio Ibrahim, il fratello del padre di Selma, a Srebrenica, però Slavica, la madre di Selma, aveva insistito di andare in Serbia e Amir non poteva fare altro che darle retta.  “Almeno là non c’è la guerra. Saremo al sicuro.” Gli aveva detto mentre caricavano le ultime cose. Tutti e tre hanno pianto dalla tristezza mentre lasciavano alle spalle la loro città, promettendo a se stessi che un giorno ci sarebbero ritornati. Un giorno quando la guerra sarebbe finita. Sì, Selma poteva continuare a vivere. Anzi, doveva continuare a vivere.


Aveva bisogno di un po’ di tempo per capire cosa aveva fatto e che le sue azioni, a suo malgrado, potevano avere delle conseguenze che avrebbe potuto evitare. Sfortunatamente, non aveva l’altra scelta che abbandonare il tetto familiare perché la sua pazienza aveva dei limiti e alcune cose Saša non avrebbe potuto tollerare più. Forse avrebbe potuto sacrificarsi per la salvaguardia della pace in casa e lasciar correre le cose. Il suo carattere, a volte era troppo impulsivo e questo non poche volte gli era d’intralcio, era uscito a gala e il resto ormai era la storia. Senza i pelli sulla lingua gli aveva detto tutto quello che pensava di lui, lo ha mandato al diavolo e se n’è andato da casa sbattendo la porta col desiderio di non tornarci mai più. Al primo istante pensava di andare da Miloš però subito dopo cambiò l’idea perché non voleva che sua sorella si preoccupasse. Alla fine, pensandoci meglio, aveva deciso di nascondersi dalla zia Vera perché da lei si sentiva al sicuro. Dopo la morte del padre la zia era l’unica che gli era rimasta, la sua era l’unica e vera famiglia di Saša su cui poteva contare sempre, anche  e soprattutto se passava dei brutti momenti.
“Certo che puoi rimanere qui quanto vuoi, però dovresti informare Tijana e Dragana del tuo trasloco.” Gli disse la zia Vera quando quella mattina era ritornata da Vrnjačka Banja. Non sapeva che Saša stava da loro, sua figlia Maria non le aveva detto nulla perché suo cugino voleva mantenere il segreto. A dire la verità, neanche Saša pensava che si sarebbe fermato da loro due giorni. Pensava che la rabbia che provava sarebbe svanita presto però non era cosi. Non aveva alcuna intenzione di tornare a casa propria.
“A mamma non importa dove sono io. Le importa più di Jovan che di me. Penso che non si sia neanche accorta della mia scomparsa. Però hai ragione zia, dovrei almeno dire a Tijana che sono qui.” Di sicuro stava impazzendo dalla preoccupazione, pensò Aleksandar mentre digitava il numero del telefono di suo futuro genero.
“Ciao, sono io. Mia sorella sta là? Posso parlare con lei Miloš? Ascolta, devo chiederti un favore grosso. Devi convincerla di trasferirsi da te. La nostra casa non è un luogo ideale dove vivere.”
Non pensava che un giorno avrebbe potuto dire una cosa del genere, però doveva a qualunque costo proteggere la sua sorellina. Lo aveva promesso a loro padre la mattina stessa in cui era arrivato da Vienna per l’ultima volta, e mentre erano in macchina che li portava a casa dall’aeroporto,  gli aveva detto di avere paura per una serie di minacce arrivate all’ambasciata che erano indirizzate a lui. Saša gli aveva rinnovato la stessa promessa nel giorno del funerale. Da sempre loro padre era l’appoggio morale della figlia, che non lo dimenticava nonostante fossero passati ormai sei mesi dalla sua scomparsa. Non poteva più contare su di lui, ma poteva contare su Saša che, anche se non poteva sostituire il padre, era l’unico dalla famiglia che le era rimasto.
“Ciao, sorellina. Io sono dalla zia Vera, non ti devi preoccupare per me.”


                                  *
Si stava preparando per uscire pensando a lui, all’amore che provava nei suoi confronti, alle settimane passate insieme. Era il periodo più bello della vita di Nataša che per la prima volta si era innamorata, come capitava a tutte le ragazzine della sua età, e le sembrava di poter volare. Era “cieca” per accorgersi del mondo,  per lei esisteva soltanto Nicola e il loro amore. La scuola era come se non ci fosse, aveva accumulato troppe assenze nell’ultimo mese che in qualunque momento poteva essere scoperta dai genitori. Era poco probabile che succedesse una cosa del genere, visto che per loro esisteva solo il lavoro, dopo il quale venivano le loro figlie, Nataša e sua sorella Nina. Per fortuna, negli ultimi giorni in città c’era un caos totale a causa della protesta studentesca e anche volendo, i suoi genitori non si sarebbero accorti di lei. Sulle barricate erano già tutti gli amici suoi e di Nicola e non poteva perdere, per nulla al mondo, l’evento principale del giorno. 
“Nadia, stai andando da qualche parte?” Nel momento in cui apriva la porta vide la sorella minore che era apparsa d’improvviso.
“Vado da Nicolina, dobbiamo studiare per il test finale di biologia. Sai come è severa la madrina Jelena, non tollera alcun tipo di favoritismo.” Sorrise Nataša. Per la prima volta non si era sentita di arrabbiarsi con la sorella per quel sopranome che detestava, primo perché era in ritardo, e poi non voleva che quel dittatore di loro padre la scoprisse.
“Lo so, proprio come lo so che non sei mai stata capace di mentire. Vai di nuovo alle dimostrazioni di piazza con Katarina. La protesta di DEPOS[1], ne parlano in città da giorni.” Nina era ben informata.
“Ascolta piccola, se ne parli con mamma e papà, ti meno! Hai capito?” Alzò il tono della voce sperando di chiudere così la discussione però Nina non aveva paura.
“Tu sei pazza! Papà ti ucciderebbe se lo sapesse! La figlia del generale Miletić supporta l’opposizione! Non sei normale! Ti rendi conto cosa stai per fare?” Continuava Nina.
“Ascoltami, non voglio litigare, sono in ritardo. So che papà mi avrebbe ucciso perciò stai zitta, ok?”
Non aspettò la risposta della sorella, uscì dalla loro stanza correndo come se avesse paura che il loro padre potesse coglierla in fragrante mentre faceva qualcosa d’illecito.


A volte penso che il nostro paese sia condannato ad una rovina eterna. Come se non fosse sufficiente che i nostri cari stessero combattendo in questa, a mio avviso, assurda guerra, ora ci hanno pure condannato per qualcosa che non abbiamo commesso noi. Questi giorni mi sento come se fossi nello stesso tempo prigioniera di un regime che non accetterò mai, finché avrò vita, e una persona libera se guardo tutti questi giovani che mi circondano. Mi riempie d’orgoglio sapere che non sono l’unica che vorrebbe far scendere dal piedestallo il Maresciallo. La mia speranza è che molti giovani si uniranno a noi amareggiati ed arrabbiati in questa battaglia che mi auguro non durerà ancora a lungo. Ma poi, in un momento di sconforto, mi chiedo se davvero vale la pena combattere. Qualunque fosse la risposta, io non perdo la speranza. Io credo ancora nel nostro potere, nel potere di coloro che un giorno restituiranno la rispettabilità a questo paese. Nel potere di coloro che un giorno ci faranno ritirare da tutti i fronti balcanici perché questo non è la nostra guerra. Non è la mia guerra, né dei miei coetanei che sognavano un futuro diverso, un futuro che ci univa non separava.
Come riuscire a spiegarlo a tutte quelle teste calde che stimano colui che ci ha rovinati, che ci ha messo in una posizione sfavorevole e che è l’unico colpevole per le sanzioni economiche che non volevamo né meritavamo. Impazzisco ogni tal volta che sento i vecchietti come parlano di lui con venerazione. Mi basta sentire colui che è purtroppo mio padre con quale rispetto parla del suo maestro, come lo elogia, che mi venga il voltastomaco. Per colpa sua e dei suoi commilitoni mio fratello se n’è andato, chissà dove si trova ora e se è al sicuro. Mi viene da vomitare se penso a coloro che sono seduti comodamente sulle loro poltrone, al caldo dei loro uffici ministeriali, mentre portano questo paese in rovina. Per colpa loro mi sono ammalata e chissà quando, e se guarirò, solo il Dio lo sa, da questo virus balcanico per il quale non hanno ancora trovato una cura.
“Ciao Sonia. Uh, solo il Dio sa se riceverai un giorno queste righe con le quali sto riempiendo questo foglio bianco, però spero dal cuore che questa lettera servirà a qualcosa. Di sicuro ti chiederai dove sono ora, se ti capita di pensare a me e a quello che avevamo un anno fa. Entrambi speravamo che questa follia non sarebbe durata a lungo, però come vedi, siamo ancora lontani dalla pace che potrebbe rimettere i nostri paesi sulla strada dell’amicizia. E non puoi immaginare quanto io soffra ogni tal volta che qualcuno parli male della nostra città però, presumo che i media serbi trattano la capitale croata alla stessa maniera. Purtroppo è in atto una guerra civile, e quando c’è quella, molte cose perdono il significato che avevano. La gente dimentica ma io non posso, né voglio, farlo. I ricordi di quei bei tempi ormai passati sono una toccasana per me che mi mantiene ancora in vita, insieme alla speranza di poterti rincontrare un giorno là dove confluiscono Sava e Danubio.”
Scrivendo, gli era venuta una voglia pazzesca di piangere e per la prima volta da quando si erano trasferiti a Zagabria si è sentito in vena di sfogarsi, di buttare dal cuore e dall’anima tutta la tristezza e la rabbia accumulatesi nell’ultimo anno. Non poteva né voleva smettere di piangere, anche se le sue lacrime stavano già bagnando il foglio sul quale stava scrivendo l’ennesima lettera indirizzata a lei. A lei dalla quale nemmeno tutto l’odio dei loro connazionali poteva separarlo. A lei che amava forse più di se stesso, però purtroppo il suo amore non era in potere di restituirgli né Sonia, tantomeno il tempo perduto. Poteva soltanto sognarla, guardare di nascosto le foto che li ritraevano del suo vecchio album che stava di nuovo nelle sue mani e sperare. La sua unica speranza era che qualcuno da lassù ascoltasse le sue preghiere e che un giorno, una volta terminato il conflitto, potesse ritornare a casa. Sì, il termine esatto era la casa perché, nonostante tutti i sforzi di Dražen, Zagabria non avrebbe potuto mai essere considerata una casa per lui. Né sarebbe stata mai in grado di prendere il posto nel suo cuore che apparteneva alla città bianca. Mai. Un giorno lui tornerà a casa sua, quella vera. Si asciugò il viso bagnato dalle lacrime, emise un sospiro profondo, deciso come lo era mai prima di terminare la sua missione. Sonia doveva sapere che lui c’era, che era presente, e che, nonostante i chilometri che li separavano, poteva sempre contare su di lui.
La protesta studentesca, avente per lo scopo la destituzione del Maresciallo, scombussolò come un vero terremoto non soltanto la capitale serba ma anche le altri grandi città del Paese. Vi parteciparono molti ragazzi giovani, come Saša e i suoi amici, che avevano posto tutte le loro speranze in quella battaglia, che non aveva portato il risultato sperato però apriva almeno uno spiraglio verso la vittoria che non era poi tanto lontana. Una battaglia persa non significava che la guerra era persa, al contrario, perché prima o poi il presidente – tiranno si sarebbe ritirato dal potere. Quella sua troppa sicurezza e il sorriso acido andavano sui nervi a Saša che sognava il giorno in cui lo avrebbe visto dietro le sbarre o meglio ancora impiccato nella piazza di Terazije per dare esempio a tutti. Quella sì che sarebbe stata la punizione giusta per quel bastardo che aveva avuto il coraggio di dichiarare con la mente fredda e senza alcuna vergogna che aveva l’appoggio totale sia dei lavoratori e dei cittadini che dalla gente di campagna, scordandosi deliberatamente degli studenti e delle loro richieste che ignorava come al solito. Saša era indignato però cosa altro si poteva aspettare da uno come Milošević? La battaglia continuava. Neanche una bomba atomica avrebbe destituito il presidente, disse un giovane dopo aver incontrato e parlato con il peggior malfattore che il Paese aveva, e Saša non poteva che essere d’accordo con lui.
Era talmente preso dai propri pensieri che non si era nemmeno accorto di Miloš che gli stava vicino e lo guardava con l’aria contrariata. Tijana non poteva più continuare a convivere con il dolore che le aveva causato il trasferimento del fratello, che ormai da settimane viveva dai parenti, e aveva pregato Miloš di cercare di farlo ragionare per convincerlo di tornare a casa. Miloš conosceva bene il futuro cognato, erano cresciuti insieme, e se sua futura moglie era testarda, il fratello di lei lo era ancora di più. Tra amici, poi,  già si sapeva, non era affatto un segreto, che Saša era arrabbiato da morire con la madre per la sua relazione amorosa con il ministro della pubblica istruzione e che non avrebbe fatto mai, per nessuna ragione del mondo, un passo indietro rispetto alla decisione già presa perché non aveva alcuna voglia di tornare là da dove era scappato di propria iniziativa. Miloš non lo biasimava però nonostante tutto non poteva molare la presa così facilmente. Saša doveva dargli retta se non per altro almeno per far stare tranquilla Tijana. Miloš non poteva permettere che le succedesse qualcosa a causa del comportamento infantile di suo fratello, proprio nel momento in cui la sua gravidanza era ormai quasi al termine, mancavano pochi mesi al lieto evento, e lo stress inutile che le provocava la situazione in cui si trovava poteva nuocere alla sua salute.
“Dove sei arrivato col pensiero? Mi piacerebbe saperlo. Stai preparando qualche piano anti-governativo?” Scherzò Miloš. Doveva pur iniziare il discorso in qualche modo. Se gli diceva immediatamente quello che voleva dirgli rischiava che il loro incontro andasse in una direzione  pericolosa che era assolutamente da evitare.
“Da nessuna parte in particolare. Stavo pensando a quel bastardo che rimarrà al potere nonostante tutte le nostre proteste. Questo paese ha bisogno di un miracolo, peccato che non ci sia un Babbo Natale che mi porterebbe come regalo la sua testa su un vassoio d’argento.” Rispose Saša con ironia che traspirava tutto la rabbia e l’odio che provava nei confronti del presidente.
“Non c’è verso Saša. È inutile. Tutto il nostro nervosismo e la rabbia non serviranno a nulla. Come se potessimo cambiare qualcosa noi. Perdiamo soltanto inutile energia in chiacchiere che riguardano la politica.” Stava cercando delle parole giuste per iniziare il discorso su Tijana. Invece di parlargli delle cose serie, si perdevano in inutile chiacchiere che riguardavano quel mostro che sì, aveva rovinato la vita a tutti loro, però non poteva essere il centro del loro mondo. Purtroppo, Miloš non trovò le parole giuste affinché Saša stesso non toccò l’argomento.
“Hai ragione. Lasciamo perdere la politica. Dimmi, come sta Tijana? Ci siamo persi di vista ultimamente, soprattutto per colpa di..” Non riuscì a finire il proprio pensiero per paura di arrabbiarsi soltanto menzionando quell’individuo che era riuscito a creare una spaccatura tra i membri della loro famiglia.
“Meno-male che ti sei ricordato di avere una sorella. Tijana non sta proprio bene. È molto nervosa, puoi ben immaginare perché. Non tocca a me di farti la predica però sei un mio amico e mi sento in dovere di dirti in faccia quello che penso. Lei ha bisogno di te, ha bisogno della pace che non trova da quando te ne sei andato. Se non per altre ragione, almeno dovresti per Tijana mettere da parte il tuo orgoglio e tornare a casa.” Gli disse quello pensava non badando minimamente al fatto che Saša potesse arrabbiarsi o meno con lui. Credeva che il suo amico gli avrebbe dato retta alla fine perché, in fondo, anche lui sotto-sotto sapeva di avere torto.
Saša era zitto. Di un tratto si vergognò per il proprio comportamento e non avendo il coraggio di guardare in faccia il suo interlocutore, si mise a fissare le punte delle proprie scarpe. Le parole che Miloš gli aveva detto lo ferirono molto, più di quanto volesse ammettere. Se teneva tanto a qualcuno, quella persona era di sicuro sua sorella. Non avrebbe perdonato mai a se stesso se lei soffrisse per colpa sua. Forse doveva dare retta all’amico nonostante non avesse voglia di andare oltre certe cose che lo facevano ancora soffrire, però non poteva prendere la decisione così veloce. Aveva bisogno di rifletterci sopra con calma e senza pressioni esterne.



Per la prima volta da quando aveva lasciato la sua città natale provò una sensazione strana che non conosceva in passato. Non si trattò di vergogna, c’era qualcos’altro che lo perseguitava come un fantasma ovunque andasse. Era un sentimento nuovo per Maksim che non si era mai trovato in situazione a mettere in discussione le proprie azioni e conseguenze che ne derivavano. Non era per niente facile ammettere che si sentiva in colpa per la maniera in cui se ne era andato, ma soprattutto perché era un codardo che non aveva avuto il coraggio per dire agli amici dove e perché andava, né di salutare lei. Per la prima volta da quando i suoi genitori lo avevano portato a Budapest Maksim ebbe paura di aver fatto lo sbaglio più grande della sua vita del quale si pentiva molto. Però, doveva essere sincero,  anche se a malincuore, e ammettere che tutto che gli succedeva era la punizione giusta che meritava assolutamente per tutto il male che le aveva fatto, per tutto il dolore che le aveva causato, che aveva causato anche a se stesso, solo che non se ne rendeva conto.



















[1] L’opposizione democratica serba, N.d.A.

Nessun commento:

Posta un commento

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...