martedì 9 agosto 2011

Il virus balcanico - settimo capitolo

Si avvicinava la fatidica data del primo anniversario d’indipendenza della sua nuova patria che era ancora in guerra civile però in città tutto era pronto per la celebrazione. Pareva che tutti fossero contenti, tutti tranne lui. Lui non aveva nulla da festeggiare. Era passato un anno da quando era iniziato l’incubo però lui non poteva dimenticare. Gli sembrava di rivivere in ogni istante la stessa scena: la telefonata che le ha fatto, le sue lacrime quando ha saputo che lui se ne stava andando, il litigio con i genitori che non gli avevano permesso di salutarla di persona. Quello che ancora gli bruciava erano le parole di sua madre che lo fecero piangere. Né si era scordato della sua migliore amica Katarina che si era messa a piangere quando ha saputo che Dražen partiva. I primi giorni che trascorse nella capitale croata coltivava ancora la speranza del ritorno nella sua città natale che gli sembrava fosse lontana un miglio, quasi come se fosse su un altro continente, ma più il tempo passava, più la sua speranza si scioglieva come un ghiacciolo.
Era passato un anno da quando non aveva notizie di lei, però non riusciva a dimenticarla. Lui non voleva dimenticarla. Aveva persino provato di scappare da casa e tornare a Belgrado però la sua missione era un totale fiasco. Alla fine doveva arrendersi all’evidenza che non avrebbe potuto raggiungere Sonia, almeno finché ci sarebbe stata la guerra. Fino ad allora avrebbe dovuto vivere la propria vita seguendo le regole altrui e aspettare pazientemente il suo momento. Il loro momento.  Nel frattempo  ha continuato di pensarla, ricordava spesso le loro passeggiate lungo il Danubio mentre la città dormiva, le loro telefonate notturne quando chiamava per augurarle buonanotte e alla fine le augurava buongiorno. Pensava anche al fratello di lei, Darko, che era il suo migliore amico. Non era per nulla contento quando Dražen lo aveva informato alla festa di compleanno sua e di Sonia che si era innamorato di lei. Era geloso come ogni fratello che amava alla follia propria sorella, però alla fine si era convinto del loro amore e aveva accettato la loro relazione. Quante volte aveva mentito al padre per proteggere la sorella e Dražen, troppe! Erano dei tempi ormai andati ma Dražen sentiva la nostalgia che purtroppo doveva reprimere. Nessuno lo avrebbe capito se soltanto si sapesse in giro che ancora la amava. Per loro la Serbia era il paese nemico. I Serbi erano degli aggressori e Belgrado era la città nella quale si nascondeva il criminale di guerra Slobodan Milošević. Se soltanto sapessero quello che ne pensava, di sicuro l’avrebbero arrestato visto che ancora non aveva imparato il croato come si deve e non simpatizzava minimamente  per il presidente Franjo Tuđman. La vita però continuava nonostante tutto e non aveva l’altra scelta che accettare quello che gli offriva: le nuove regole del gioco che doveva seguire alla lettera, anche se era contrario.



Nelle ultime settimane incontrava di rado le sue migliori amiche e questo la irritava parecchio. Non abitavano vicina l’una all’altra ma prima questo non era un ostacolo per loro e passavano insieme il tempo libero.  Stavano studiando per l’esame d’ammissione all’università, era del tutto normale che avessero poco tempo libero a disposizione, però Tijana aveva impressione che per qualche ragione a lei sconosciuta si stessero evitando. Katarina, dopo la rottura con Maksim, si stava impegnando al massimo per superare il fatidico esame per entrare alla facoltà di medicina grazie all’aiuto prezioso del suo padre medico. Ormai si era convinta che studiare la medicina era non soltanto il desiderio di suo padre ma anche il suo stesso sogno al quale aveva rinunciato per colpa di Maksim. Sonia, per fortuna, era rimasta fedele ai suoi progetti di sempre e si stava preparando per la facoltà di lingue straniere, in altre parole per il corso di laurea in lingua e letteratura italiana. Tijana, affascinata dal lavoro di suo defunto padre, l’ex-ambasciatore della Repubblica Socialista e Federativa di Jugoslavia a Vienna ucciso sei mesi prima dai ladri ancora non identificati, aveva deciso di seguire le sue orme iscrivendosi alla Facoltà di Scienze Politiche. Nessuno dei suoi amici era al corrente di questa decisione, Tijana l’aveva presa all’ultimo istante e l’aveva comunicata soltanto a suo ragazzo Miloš.
Lui però non era molto contento di questa decisione improvvisa perché nessuno, tranne le persone molto vicine alla famiglia di Tijana, sapeva del dramma che vivevano. Pensavano che i genitori di Tijana fossero divorziati e non avevano collegato la notizia dell’assassinio dell’ambasciatore Đurić alla loro amica che per puro caso portava lo stesso cognome. Non era però la ragione principale per la quale disapprovava la scelta di Tijana. Miloš aveva paura che a lei un giorno potesse toccare la stessa sorte però Tijana era testarda come un mulo e faceva tutto che voleva. Non esistevano le parole che avrebbero fatto sì che cambiasse la decisione già presa. Lo doveva a se stessa, al padre scomparso e alla famiglia, almeno a quello che ne era rimasto. Miloš era contrario però doveva rispettare lei e la decisione che aveva preso.


Tutto era finito in un batter d’occhio. Si era liberata dal peso che portava da settimane e finalmente era molto allegra. Era felice. Pensava di essere felice. Già, felice. Le piaceva pensare che era felice e soprattutto forte. Era forte a sufficienza per poter dimenticare che è stata proprio lei stessa, Anna, che aveva ucciso la creatura che portava in grembo con quella sua decisione orrenda. Però questo non aveva alcuna importanza ormai. Nessuno lo saprà mai, soprattutto non lui. Era un segreto che Anna condivideva con Tatiana. Le aveva dato tanti soldi purché non rivelasse mai a nessuno quello che era successo in quella mattinata gelida di sei mesi prima. Era sicura che questo sarebbe rimasto un loro segreto mentre osservava di nascosto la ragazza che ora, come allora, era seduta accanto a lei mentre stavano tornando a casa in taxi dopo una stremante giornata di lavoro.
Anna pensava che con quell’intervento avrebbe messo fine a quella storia, però si sbagliava. La bambina dei capelli ricci che sognava spesso prima dell’aborto non la lasciava in pace. La vedeva anche in stato di veglia. Bastava che chiudesse gli occhi per qualche istante e il sorriso della bambina appariva davanti ai suoi occhi. Non aiutava il fatto che agitasse le mani per allontanarla da sé. La bambina era sempre lì, come se avesse voluto ricordare Anna di quello che aveva fatto. La sognava quasi ogni notte. Il sogno non era mai uguale, cambiavano i posti dai quali la bambina si faceva sentire ed era da sola. Dalla fatidica notte prima di aborto non aveva sognato Srđan però la bambina sembrava che non avesse alcuna intenzione di abbandonarla. Tatiana le aveva suggerito di andare in chiesa a confessarsi. Voleva che Anna si sentisse meglio però Anna non aveva alcuna intenzione di darle retta. Non era mai stata religiosa e non pensava di diventarlo nell’età adulta. Come se qualche preghiera le avrebbe aiutato di liberasi dall’angioletto riccio. Doveva trovare un altro modo per lasciarsi alle spalle il passato che la soffocava e se con questo si sottintendeva la convivenza forzata con la bambina misteriosa Anna non si sarebbe opposta. Ne era convinta.


Ivana era eccitata e un po’ nervosa. Le tremavano le gambe mentre si avvicinava alla porta con i passi indecisi. Aprì la porta cercando di apparire più tranquilla possibile ma l’emozione era molto forte. A malapena riuscì a trattenere le lacrime. Davanti a lei c’era una sedia a rotelle in cui era seduto un ragazzo magrissimo, con gli occhi infossati e una barba lunghissima come se non si avesse rasato per mesi. Il soldato biondo che accompagnava il ragazzo nella sedia a rotelle si rivolse a Ivana con la voce rauca ma lei non comprendeva quello che le diceva. Non badava per niente alla presenza del soldato. Per lei era come se fosse da sola con il ragazzo invalido, il resto del mondo non esisteva. Rifiutava coscientemente la verità che le stava davanti agli occhi. Non poteva essere suo fratello maggiore si ripeteva continuamente mentre faceva il cenno di no con la testa. Era incredula. Aveva tante cose da dirgli ma non trovava il coraggio. Le parole le rimasero incastrate nella gola. Osservava il ragazzo con una curiosità sfrenata, quasi morbosa, aspettando che lui facesse il  primo passo. Anche lui osservava lei in silenzio. Aveva paura che pronunciando qualsiasi parola potesse cancellare l’incantesimo grazie al quale era riuscito di scappare dall’inferno di Sarajevo.  Si stavano scrutando a vicenda per un tempo che ad entrambi sembrò un’infinità  e chissà fino a quando sarebbero rimasti così se non li raggiunse la loro madre. Ivan non poteva sopportare più il silenzio chi li avvolgeva e chiamò per nome tutte e due mentre le lacrime gli scendevano dal viso.
Il soldato che accompagnava Ivan si sentì superfluo. Osservava la mamma e la figlia che lo fecero ricordare le famose statue greche che aveva visto nell’ultima gita scolastica prima che fosse mobilitato. Le due donne stavano abbracciate sulla soglia della porta e piangevano. Non parlavano però poteva sentire i loro sospiri e il battito di proprio cuore che batteva forte dall’emozione che provava. Era di troppo, lo sentiva, e volentieri se ne sarebbe andato però non riusciva né a muoversi né a salutarli con un semplice addio. Restò lì, immobile, a fissare la famiglia riunitasi con un sguardo quasi vuoto.
                                    
                                          *


Maria stava uscendo da casa quando sentì suonare il telefono. Era di corsa visto che ritardava alla grande per la lezione di ballo folcloristico però dovette per forza rispondere in quanto i suoi genitori erano fuori. Dall’altra parte della cornetta le arrivavano i sospiri dell’interlocutore che stava cercando di dirle qualcosa piuttosto incomprensibile però la voce tremante era molto simile a quella di sua zia Jelica. Anzi, era proprio la sua voce, Maria non ebbe alcun dubbio.
“Zia, non capisco quello che stai dicendo. Ripetilo per favore.”
“Maria, mi passi tua madre per piacere. È in casa?” Chiese la signora. Sembrava che si fosse calmata d’improvviso.
“Mamma non c’è. È uscita stamattina con papà. Perché?” Qualcosa non andava, pensò Maria. Poteva giurare che la zia stesse piangendo.
“Maria, ti prego, dì a mamma di richiamarmi. Se non mi trova a casa mi troverà di sicuro dalla nonna. Va bene?” Anche se aveva dato del suo meglio Jelica non era riuscita a ingannare la nipote.
“Sì, va bene.” Rispose Maria e scrisse un messaggio per la madre in cui le diceva di chiamare appena arrivava la sua sorella maggiore.
Mentre usciva dall’appartamento non riusciva a smettere di pensare a quello che le era appena successo. Aveva una sensazione strana che non poteva spiegare. C’era qualcosa nella voce di sua zia che la preoccupava ma non capiva cosa potesse essere. Era talmente immersa nei propri pensieri che non si era minimamente accorta di Bojan mentre entrava nell’ascensore. Non lo aveva salutato per prima perché non lo aveva nemmeno visto e  quando lui la salutò a voce lei rispose con un cenno di capo.  Senza sapere il perché, quando uscirono dall’ascensore gli si getto tra le braccia.
Bojan era confuso. Sentiva il tremore del corpo di lei e la strinse ancora più forte a sé. Maria stava piangendo e lui cercò di calmarla.
“Maria, c’è qualcosa che non va? Su, calmati. Sono io ora qui con te.” Sussurrò Bojan.
Anche Maria era confusa. Non sapeva cosa rispondergli. Alla fine cos’era successo? La sua zia aveva telefonato a sua madre in lacrime, sembrava un po’ agitata ma niente di più. Non voleva dire nulla. Ma perché allora Maria era cosi in pensiero? E perché di quella voglia assurda di piangere?
“Non lo so. So soltanto che ho un bisogno irrefrenabile di piangere. Pensi che io sia matta?” Lo guardava con quei suoi occhi grandi e neri pieni di stupore che lacrimavano.
Lui tirò dalla tasca il suo fazzoletto di seta, un regalo della nonna, sul quale era inciso il suo nome e le asciugò il viso.
“Certo che non penso che tu sia matta. Ma sei sicura che non è successo proprio niente?” Le domandò di nuovo.
Lei gli raccontò della telefonata di Jelica però il fatto che sua zia stesse piangendo non doveva avere alcun significato o sì, si chiese a voce alta Maria. Era spaventata e cercava la salvezza nelle parole di conforto di Bojan.
“Forse non è davvero successo niente. Tranquilla.” Cercò di calmarla. Era stupito della sua ingenuità. “Però non pensarci ora.” Diede un’occhiata all’orologio.
“Se non ci sbrighiamo arriveremo in ritardo per la prova di ballo di stasera.” Maria fece il segno di sì con la testa.
Bojan la prese per la mano e la condusse verso l’uscita. Era contento perché finalmente era riuscito ad avvicinarsi a lei. Sperava soltanto che la notizia che portava sua zia non fosse brutta, anche se aveva sensazione che non fosse proprio così.  Per questo voleva starle accanto il più possibile e forse passare tutta la giornata con lei se sarà possibile. Aveva un presentimento strano che gli diceva che Maria avrebbe avuto bisogno di lui e così, quando erano usciti dall’edificio, la abbracciò forte.



Passarono tutta la notte parlando come se volessero riempire il buco del tempo con tutti i ricordi che non avevano condiviso nell’ultimo periodo di lontananza non voluta da loro. Ivana era felice perché suo fratellino fosse tornato finalmente a casa, anche se non era più lo stesso ragazzo che aveva lasciato casa quasi un anno fa. Era cresciuto, ormai era un uomo maturo visto tutto quello che gli era capitato nel corso degli ultimi mesi, però a Ivana mancava quel suo comportamento a volte infantile. Le si stringeva il cuore ogni volta che lo vedeva in quella sedia a rotelle che ora stava lì, nell’angolo della camera da letto, e le rammentava quotidianamente  l’inferno in cui stava Ivan, anche se cercava di non pensarci. Ivan era tornato e il resto non contava. Lei era felice e voleva condividere la propria felicità con i loro amici.
“Scordatelo!” Replicò lui quando seppe che lui voleva invitarli quel pomeriggio. Non voleva vederli, anzi, non voleva vedere NESSUNO. Voleva soltanto essere lasciato in pace da tutti. Voleva evitare che lo compatissero.
“Perché? Nessuno sa che sei tornato. Il tuo ritorno sarà una sorpresa per tutti!” Esclamò Ivana con entusiasmo.
“Non mi piacciono più le sorprese Ivana. Una volta era diverso ma ora è tutto cambiato.”
“Io sono felice Ivan e lo dovresti essere anche tu. Mi dispiace ma ho già invitato gli ospiti.” Ivana non mollava facilmente.
“Mi chiuderò a chiave in camera.” Replicò Ivan.
“Spiacente, ma non ce la farai.” Sorrise sua sorella. “Ho perso la chiave qualche settimana dopo la tua partenza.”
Era una testarda, una grande testarda, però non poteva biasimarla. Gli voleva bene e non era colpevole per lo stato in cui Ivan si trovava né per la vergogna che lo assaliva. Voleva incontrare di nuovo i loro amici però non ora. Non era il momento adatto ma un giorno lo sarà.


Tutto era pronto per il grande trasloco. Nessuno ne era al corrente, tranne il suo migliore amico Nicola, ed era meglio così. Per chi? Per Maksim, per la sua famiglia e per i suoi amici s’intende. Non aveva più alcun legame con Belgrado, tranne forse la sua famiglia, però i suoi genitori già andavano spesso a Budapest in visita alla zia Tamara e ora che il loro figlio si trasferiva là, avrebbero intensificato le visite. L’unica che disapprovava la scelta di Maksim era sua sorella Olivera che all’inizio pensava che si trattasse di una follia, ma presto si era resa conto che lui sarebbe stato felice e ha accettato la sua decisione. Anche la loro cugina Maja era al settimo cielo per il trasferimento di Maksim e non vedeva l’ora che lui arrivasse in Ungheria. Era tutto pronto per la partenza.
“Andiamo. Spero che tu non abbia dimenticato nulla.” Gli disse la sorella.
“No, non ho dimenticato nulla. Si parte!” Rispose lui.
Se ne stava andando incontro a un futuro nuovo senza di lei che lui amava ancora nonostante lei lo odiasse con tutta se stessa e la cosa peggiore era che ne aveva tutto il diritto. Non la meritava, né meritava il suo affetto. Era meglio che lei lo dimenticasse. Prese dal comodino la cornice d’argento con una loro vecchia foto dai tempi in cui erano innamorati e la accarezzò. D’impulso gli venne in mente di portarla con sé ma pensando capì che sarebbe stato un errore grosso. Stava per tagliare tutti i ponti col passato e soprattutto con Katarina. Appoggiò la cornice sul comodino e sussurrò la frase che gli passava per la mente.
“Meriti qualcuno migliore e non un idiota come lo sono stato io.”
Addio Belgrado.



Era mercoledì. Da sempre odiava la giornata di mercoledì. Da sempre, però un mercoledì particolare non avrebbe dimenticato per tutta la vita. Non un mercoledì qualsiasi, ma il mercoledì del mese di giugno, l’anno 1992. Poteva benissimo prendere a pugni quel cretino di soldato- piccione viaggiatore che quella mattina prestissimo si era presentato in casa sua per consegnare ai suo familiari quella maledetta lettera dicendo con quella sua voce insignificante che era dispiaciuto. Il dispiacere? Lui non sapeva cosa fosse il dispiacere e il dolore che ora provava Nemanja. Non poteva neanche piangere dal dolore e dalla rabbia per la perdita di suo fratello, e non il fratello qualsiasi ma bensì suo fratello maggiore che si era arruolato con il nome suo per proteggerlo perché era ancora un minorenne contrario alla guerra. Era partito per il campo di battaglia con il nome di Nemanja dove uno stupido ustascia lo aveva massacrato e ora non c’era più. Sì, avrebbe dovuto picchiare quel soldato che aveva avvisato sua madre della sua morte, ovvero di quella di suo fratello Nenad, ma non l’ha fatto. Il soldato se n’è squagliato di corsa, mormorando un semplice addio, come se avesse temuto la reazione di Nemanja che passò tutto il giorno piangendo. Anche ora, mentre l’autobus stava entrando nella capitale serba, non riusciva a smettere di piangere. Sua madre era molto scossa e non era in grado di partire, il padre era rimasto con lei a consolarla e a Nemanja toccava il compito ingrato di andare a ritirare la salma del fratello. La zia Vera gli aveva promesso il suo aiuto e avrebbe dovuto attenderlo in stazione.
Vera era ancora sotto shock per la morte del nipote. Rimproverava a se stessa perché non si vedevano di più con sua sorella e con i nipoti da quando si erano trasferiti a Belgrado, però presto si era resa conto che non aveva nessun senso pensare cosa sarebbe successo se avesse fatto determinate cose, né i suoi sensi di colpa avrebbero potuto resuscitare suo nipote prediletto. Ora doveva guardare avanti e pensare alla sorella e all’altro nipote che era appena arrivato. Lo guardava mentre scendeva dall’autobus e cercò di sembrare forte. Doveva essere forte non soltanto per lui e per sua madre Jelica, sua sorella, ma soprattutto per se stessa e per la sua famiglia. Come al solito nei momenti cruciali era lei, Vera, quella su cui tutti facevano affidamento e non poteva deluderli. Jelica avrà di sicuro bisogno del suo aiuto ma soprattutto ne avrà bisogno Nemanja. La perdita del fratello era un duro colpo per lui. Si sentiva responsabile perché Nenad si era arruolato al posto suo e non sarà facile convincerlo che non era colpa sua. Non era colpa di nessuno, soprattutto non sua.
“Ciao tesoro. Spero che tu abbia viaggiato bene. Lo abbracciò prima che si sono seduti in macchina.
Era colpa soltanto del destino. Di un destino crudele che a volte colora le nostre vite di tinta scura. Di un destino amaro e nero.


                                          *

Stavano aspettando i risultati degli esami di ammissione all’università in quel loro caffè preferito nei pressi del loro ormai vecchio liceo e chiacchieravano animatamente. C’erano tanti ricordi che li legavano a quel bar del quartiere e non era facile liberarsene. C’erano tutti presenti tranne lui e lei. Lui stava aspettando gli stessi risultanti davanti alla facoltà di Medicina a Zagabria, lei partecipava alle sfilate di moda da qualche parte in Italia. Mancava anche il loro fratello ed amico Darko di cui non avevano alcuna notizia, come era già successo con Zvonko a cui si era persa ogni traccia. Entrambi combattevano nell’assurda guerra civile alla quale non si vedeva ancora la fine. All’appello mancava pure Maksim che aveva lasciato la capitale in misteriose circostanze, probabilmente a causa della sua ex-ragazza Katarina su cui viso erano stampati l’angoscia e la tristezza, anche se continuava a negare di essere in ansia per lui. Tijana cercava di seguire il filo del discorso che facevano i ragazzi però era molto lontano col pensiero e un po’ triste che quasi si era messa di piangere. Asciugò velocemente il viso per nascondere una lacrima traditrice però a Miloš non era sfuggito quel gesto.
“Tutto bene?” Le chiese. Lei fece il cenno di sì con la testa.
Non era proprio tutto bene, però non aveva alcuna importanza. Ora che finalmente si erano riuniti ha provato il desiderio di confidarsi con i ragazzi. Non sapevano che Tijana fosse in dolce attesa, né che Miloš le avesse chiesto di sposarlo. Lo sapevano soltanto i loro genitori che avevano accolto la notizia meglio che i futuri coniugi se lo aspettassero.  Nessuna sapeva della tragedia che aveva colpito la famiglia di Tijana sei mesi fa e si sentiva in dovere di raccontargli la verità. Certe cose dovrebbero rimanere segrete, soprattutto quelle che riguardano l’intimità di una persona, le aveva detto Miloš quando aveva saputo che voleva raccontare ai loro amici dell’assassinio di suo padre.  Lei ne era consapevole però nonostante tutto aveva deciso di portare avanti la decisione e alla fine anche lui dovette rassegnarci.
“Un po’ di attenzione, per favore!” Esclamò Tijana.
Immediatamente smisero di parlare, anche se stavano discutendo animatamente della scomparsa di Maksim, che era un argomento di grande interesse per tutti gli ex-liceali. Si girarono verso la direzione in cui Tijana era seduta.
“Ho una notizia per voi, anzi, Miloš e io abbiamo una notizia per voi. Aspettiamo un bambino e ci sposeremo presto!”
Katarina e Sonia si alzarono di scatto dalla sorpresa.
“Stai scherzando, vero?” Domandò Katarina.
“Non sto scherzando affatto. Se non credete a me, fatevelo dire da Miloš.” Sorrise Tijana.
“A dire la verità, ha fatto un po’ la preziosa. A suo dire, la proposta non era abbastanza romantica.” Anche Miloš sorrideva quando d’improvviso sentirono un applauso.
Tutti si girarono verso la porta d’ingresso visibilmente sorpresi dall’immagine che si allungava davanti ai loro occhi.  Ivana spingeva una sedia a rotelle in cui stava un loro amico che da mesi combatteva sul campo di battaglia e applaudiva. Il suo battimano  fece ecco in tutto il bar.
“Congratulazioni!” Disse Ivan a malapena. Era visibilmente emozionato perché li vedeva riuniti per la prima volta dopo tutto quel tempo in cui era assente ma non trovava la forza per dire una frase con un po’ di senso compiuto.
“Si tratta di un sogno, vero? Deve essere un sogno!” Esclamò Sonia mentre cercava di domare l’emozione e soprattutto una lacrima traditrice che scendeva dal viso.  Non era l’unica ad essersi emozionata. Tutto loro erano emozionati e un po’ sotto shock, ma anche molto felici per il ritorno di Ivan.
“Non è un sogno, tranquilla. Ivan è tornato da una settimana e sapendo che eravate tutti qui, abbiamo deciso di farvi una bella sorpresa che credo sia riuscita del tutto.” Disse Ivana mentre Sonia si stava avvicinando lentamente ad Ivan. Aveva paura di abbracciarlo perché era convinta che fosse soltanto un sogno dal quale presto si sarebbe svegliata. Ne era proprio sicura.
Tijana osservava la scena cercando di calmare il battito del proprio cuore che era come impazzito dall’emozione che la stava assalendo. Ha cercato in tutti i modi di restare calma, ma le lacrime ormai stavano bagnando anche il suo viso rovinando completamente il suo trucco perfetto.  Tutti stavano ascoltando con l’attenzione il racconto di guerra di Ivan che ormai si erano totalmente dimenticati di lei. Ivan ora era il protagonista assoluto della serata, se lo meritava proprio. Un giorno però sarà il turno di Tijana e potrà anche lei raccontare la sua storia riguardo all’uomo più straordinario che abbia mai conosciuto. La storia di un padre eccezionale che da bambina le raccontava ogni sera la sua favola preferita, “Lily e Vagabondo”, che le mandava delle cartoline da ogni suo viaggio di lavoro all’estero, l’uomo che era la causa di ogni loro trasloco da uno all’altro capo del mondo ma per fortuna a ogni spostamento c’era anche un rientro nella loro base: Belgrado. La storia di una persona meravigliosa che le aveva trasmesso dei valori come ad esempio l’onestà e la sincerità, che le diceva sempre che un uomo non era ricco se possedeva dei soldi sul conto, ma se era ricco d’animo. Un giorno potrà parlargli dell’uomo che è stato assassinato in pieno giorno davanti all’ambasciata iugoslava a Vienna perché non era gradito dal nuovo regime serbo. Secondo la polizia si trattava di un furto finito male però Tijana non credeva in quella versione, ne lo farà mai. Sì, avrà occasione per parlare di suo padre, magari fra un anno quando anche lei stessa sarà madre. Ora non era il momento giusto. Anzi, non era il suo momento.


Maria era distrutta dal dolore. Da due giorni non riusciva a prendere sonno nonostante avesse provato, ma anche se succedeva che si addormentasse, sognava sempre la stessa persona, suo cugino Nenad, e si svegliava in lacrime. Era passata una settimana dal suo funerale però più il tempo volava, più la sua ferita non si rimarginava. Doveva però essere il contrario, considerando  quel vecchio detto che dice che il tempo possa far guarire ogni male. La cosa che le dispiaceva di più era dover tornare per forza a Belgrado però col pensiero era rimasta ancora là, con i suoi familiari, nella cittadina natale di sua madre. La mamma aveva deciso di restare con la zia perché avevano bisogno l’una dell’altra in quel momento così doloroso per la loro famiglia. Anche Maria voleva restare ma non le fu permesso. E adesso? Ormai non aveva nessuna voglia di vivere. Non aveva né fame né sete, aveva soltanto un dolore acuto che le tagliava il cuore in piccoli pezzi. Non le andava neanche di uscire in balcone per sentire la pioggia sul viso come faceva spesso quando pioveva. Non guardava la televisione, né ascoltava la sua radio preferita. Voleva soltanto essere lasciata in pace da tutti. E quando lui entrò nella sua camera era pronta per mandarlo al diavolo però non avendo la forza per parlare, rimase muta sperando che lui avrebbe capito che non era benvenuto.  Desiderava più di ogni cosa che lui se ne andasse immediatamente.
Il suo ospite non aveva alcuna intenzione di andarsene. Non lo avrebbe fatto neanche se gli avessero pagato per farlo. Capiva perfettamente che era indesiderato però non per questo sarebbe tornato indietro. Si è seduto sul bordo del suo letto. Lei stava piangendo. Poteva sentire ogni suo sospiro nonostante avesse coperto il viso con il cuscino di setta. Capiva il suo dolore più di quanto lei potesse immaginare. Si sentiva proprio così dopo la morte di sua cugina Ivona in un tragico incidente automobilistico. Era lo stesso dolore che ora stava devastando Maria e che Bojan conosceva purtroppo molto bene. Ricordava ancora le parole di sua madre che gli aveva detto in occasione di funerale della cugina scomparsa: gli disse di piangere liberamente, di svuotare il cestino dell’anima perché dopo si sarebbe sentito meglio. La loro famiglia era distrutta dal dolore però dopo qualche tempo riuscirono superare quel momento così brutto della loro vita. Anche sua cugina Ivona avrebbe voluto che loro continuassero a vivere. Erano passati due anni da quell’evento così tragico però Bojan spesso si rattristava pensando a lei anche se sapeva che le sue lacrime non avrebbero potuto resuscitarla. Neanche Maria sarebbe riuscita in quell’impresa, questo era poco ma sicuro, solo che avrebbe dovuto far scorrere un po’ più del tempo per poter capirlo.
“Maria.” Mormorò con tenerezza. Le accarezzò dolcemente il viso. Voleva abbracciarla però il suo tocco provocò una reazione diversa da quella sperata. Non aveva nessuna voglia di spaventarla, al contrario.
“Fuori! Lasciami in pace! Chi ti ha chiamato!” Urlò Maria piangendo.
“Come sarebbe chi mi ha chiamato? Qualcuno chiamò un angelo ed eccomi.” Cercò di rallegrarla un po’ ma era improbabile che gli desse retta.
“Fuori, ho detto! Non ho bisogno di te, hai sentito? Lasciami in pace!” Gli lanciò il cuscino dalla rabbia.
“Vuoi che io ti lasci? Non mi pare che ti sto trattenendo.” Non mollava la presa così facilmente. Non era affatto spiritoso però sperava di vedere un suo sorriso.
“Ascoltami attentamente Maria. So esattamente come ti senti ora, anche se probabilmente non mi credi. Due anni fa ho perso la cugina in un stupido incidente automobilistico. Per mesi ho pianto ma era tutto inutile. Le mie lacrime non avevano alcun potere per farla tornare in vita. Questo mi provocò un gran dolore però col tempo ho imparato a conviverci. Vedrai, ce la farai anche tu. E ora, per favore, pulisci il viso e vestiti. Pettinati. Non vorresti che arrivassimo in ritardo anche stasera?”
Maria lo fissava confusa. Aveva smesso di piangere e nell’ultimo minuto lo stava anche ascoltando con attenzione.
“Siamo in ritardo?” Chiese Maria. Bojan era contento perché sembrava che stesse meglio. Almeno non piangeva più.
“Certo che siamo in ritardo, guarda l’ora. Sloba sarà arrabbiatissimo, sai che non gli piacciono i ritardi.” Poteva già immaginare la faccia del loro coreografo che odiava le persone che venivano in ritardo e non faceva altro che sottolinearlo.
Maria scosse il capo.  
“Non voglio andare più a folclore.”
“Maria,  sei matta? Non ti ricordi che siamo stati invitati al festival folcloristico che si terrà a Sombor e perciò Sloba ha duplicato le prove di questa settimana?”
“Non l’ho dimenticato Bojan, però non mi interessa più.” Disse Maria scuotendo di nuovo con la testa.
“Sembra che tu non abbia capito. Lascio in modo definitivo il corpo di ballo.” Aggiunse.
Non, Bojan non glielo avrebbe permesso. Non dopo tutti i sacrifici fatti per avvicinarsi a lei.
“Lasci il corpo di ballo? Scordatelo. Cancella quest’idea assurda dalla tua bella testa. Non ti permetterò di abbandonare la squadra.”
Ma che cavolo vuole!? Pensò Maria bollendo dalla rabbia.
“Chi sei tu per doverti chiedere il permesso? Non mi conosci neanche! Fuori da casa mia!” Stavano l’uno di fronte all’altra. Maria era su tutte le furie mentre gli mostrava la porta, il segno che avrebbe dovuto andarsene.
“Non puoi lasciare il gruppo dopo tutto quello che ho fatto per avvicinarmi a te. Ho iniziato ad andare a folclore, nonostante tutto il condominio mi prendesse in giro, soltanto per conoscere la signorina “lasciami – in – pace” qui presente. E se pensi che io ora voglia lasciarti andare, ti sbagli di grosso, anzi, non mi conosci affatto. O forse hai ragione tu, io non ti conosco proprio. Però come potrei farlo se tu sei chiusa in te stessa e non ti fai avvicinare da nessuno. Quando mi avevi abbracciato quel giorno dopo la prova ero felicissimo. Pensavo che potessimo almeno diventare amici, se non forse qualcosa di più anche.  Mi sa che mi sono sbagliato. Buonanotte Maria.” Sbatté la porta della sua camera maledicendosi. Chi gliel’aveva fatto fare?
Non poteva perdere anche lui. Era il suo unico amico in dannata Belgrado. Era l’unica persona che le aveva offerto la spalla su cui piangere nel momento di bisogno e lei cosa ha fatto? L’aveva mandato via. Si è comportata male, molto male. Invece di ringraziarlo per tutto quello che aveva fatto per aiutarla, si è comportata come se lui fosse stato il suo peggior nemico. Non se lo meritava questo. E poi, doveva ammettere, aveva ragione lui. La vita andava avanti e un giorno avrebbe superato quel dolore che ora sentiva dentro.  Forse ci vorrà del tempo per riuscirci però una cosa la consolava. Non era più sola. Si alzò dal letto e aprì la porta sperando che lui non se ne fosse andato. 
“Bojan, mi aspetti per qualche minuto? Devo cambiarmi. Sarò pronta in dieci minuti.” Sorrise Maria per la prima volta quella sera.
“Va bene, però a una condizione, se non mi tiri addosso un’altra volta il cuscino e se mi prometti che dopo la prova vieni con me a mangiare le pastine.” 
“Ma non eri a dieta tu?”
“Maria, non cominciare di nuovo con quella storia!”
“Cos’ho detto?” Si sentiva la sua voce allegra provenire dal bagno.
Stava nascendo una nuova amicizia in via Kumodraška. Un’amicizia o qualcosa di più? Si vedrà col tempo, con lo stesso tempo di cui Maria aveva bisogno per superare la perdita del cugino adorato. Lo stesso tempo che aveva insegnato il suo nuovo amico ad accettare la morte della cugina amata. Il tempo che fa rimarginare le vecchie ferite.


                                  *

Era una giornata come tutte. Erano una famiglia come tutte che si era riunita in un pomeriggio qualunque a bere un tè. Il primario Vladimir Antonović cercava di rilassarsi dopo una settimana piuttosto intensa e faticosa che purtroppo non era ancora finita. Aveva ancora un compito piuttosto difficile da svolgere. Purtroppo, conosceva bene sua moglie, però sperava tuttora che alla fine avrebbe molato la presa. Avendo paura della sua reazione, le comunicò con la voce bassissima che la loro figlia si era iscritta alla facoltà di Medicina.
“Katarina si è iscritta alla medicina? Mia figlia si è iscritta alla medicina?” Ripeté più volte, più che altro per convincere se stessa. Era piuttosto incredula.
“Sì, te l’ho appena detto, però sembra che tu non mi abbia sentito. Nostra figlia si è iscritta alla facoltà di Medicina, mi ha appena telefonato dal centro per darmi la notizia. Dovresti essere felice.” Ebbe voglia di sorridere però l’espressione contrariata sul viso di sua moglie fece sì che cambiasse idea.
Doveva essere felice? Sua figlia non aveva dato retta ai suoi consigli e questo suo comportamento doveva farle piacere?
“Vladimir, dimmi che è uno scherzo per favore, anche se si tratta di uno scherzo di pessimo gusto.” Replicò Jelena visibilmente alterata.
“Non è affatto uno scherzo Jelena.” Suo marito scosse la testa.  “Ancora non ci posso credere. Ha studiato moltissimo, con il mio aiuto si sottintende,  e ce l’ha fatta. Immagina, ha ottenuto anche una borsa di studio. Dovremo essere orgogliosi di lei, almeno io lo sono, non posso dire però la stessa cosa per te.”
Era arrabbiata con loro figlia prediletta perché non voleva seguire le sue orme e al primo impatto poteva anche capirla. Non le avevano detto nulla della decisione di Katarina, tra l’altro presa all’ultimo momento e a sua insaputa, perché sapevano che non l’avrebbe presa bene. Temevano un litigio e a quanto pare avevano ragione.
“Orgogliosa? Dovrei essere orgogliosa di mio marito e di mia figlia e delle loro bugie? Non posso ancora credere che mia figlia fosse capace di farmi una cosa del genere e la cosa peggiore che tu sapevi tutto ma sei rimasto zitto. E la storia riguardo alla facoltà di economia, era una frottola per farmi stare buona?”
Non voleva che litigassero e così l’ha tenuta all’oscuro di tutto. L’ha fatto per loro figlia. Non poteva dimenticare in quale stato d’animo era Katarina quando è venuta da lui all’ospedale per parlargli della decisione presa. Aveva bisogno del suo aiuto perché aveva deciso di iscriversi alla medicina. “Non sei contento papà? Non era quello che hai sempre sognato?” Gli aveva detto piangendo. Certo che era felice anche se non capiva perché, alla fine, aveva deciso di seguire le sue orme. Quando Katarina si era calmata un po’, gli aveva raccontato della rottura con Maksim che aveva come conseguenza la decisione di cambiare l’università. Vladimir aveva cercato di spiegarle che uno non sceglieva la facoltà in base a un torto subito ma lei da subito aveva negato ogni accusa. Katarina era da troppo tempo abbagliata da Maksim e dall’influenza che aveva su di lei, anche quando si trattava di prendere una decisione importante che non riguardasse la loro vita di coppia. Così aveva deciso di non studiare economia in primis perché non le piaceva e poi voleva allontanarsi da lui, una volta per tutte. Vladimir non poteva guardarla in quel stato e perciò ha deciso di appoggiarla senza parlarne alla moglie. Jelena ora era arrabbiata con lui, con entrambi, e non poteva certo biasimarla.
“Ok, capisco che ora sei arrabbiata però la rabbia sverrà col tempo. La nostra unica figli, a cui dovremo essere orgogliosi, ha scelto da sola, non l’ho influenzata per niente. Devi credermi Jelena. Dovremo essere felici per il successo di nostra figlia. Non vorrai mica continuare a brontolare?” L’abbracciò teneramente.
“Anche la biologia ha che fare con la medicina, no?” Domandò Jelena sorridendo per la prima volta.
“Ma certo! Così mi piaci! Sai, Katarina aveva paura della tua reazione. Credimi, non voleva farti arrabbiare.“
Come no! La difendeva sempre come sempre, come ogni padre che si rispetti e che ami sua unica figlia, anche se non lo meritava. Anche Jelena la amava, nonostante la facesse diventare matta a volte.  Era il suo tesoro e la cosa più importante della sua vita da quando l’aveva tenuta fra le sue braccia per la prima volta 19 anni fa. Katarina era il regalo di compleanno più bello che Jelena avesse mai ricevuto e il donno più prezioso che la vita gliel’aveva dato, dopo che aveva incontrato Vladimir.  Purtroppo, tra lei e Katarina da subito si era instaurato un rapporto conflittuale e Jelena non era mai riuscita a dimostrarle quanto la amava realmente.
“Non voleva farmi arrabbiare però ci è riuscita.” Qualunque cosa Jelena facesse o dicesse, sua figlia avrebbe frainteso tutto.
“Vuoi ricominciare a brontolare Jelena?” Le domando il marito. “Non essere così dura con lei. Va bene, non si è iscritta alla biologia però non è la fine del mondo.”
Forse suo marito aveva ragione. Forse avrebbe dovuto mollare la presa e perdonarle l’ennesimo tradimento. La guerra tra loro due durava ormai da troppo tempo, da 19 anni.
“Certo che non voglio ricominciare. Forse hai ragione. Forse dovrei essere felice e orgogliosa di nostra figlia.”
Non era mai troppo tardi per la capitolazione in nome dell’amore per un figlio e questa volta Jelena non avrebbe perso l’occasione per dimostrare a sua figlia quanto bene le volesse.



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