martedì 16 agosto 2011

Il virus balcanico - ottavo capitolo

Non le fu permesso di portare con sé né l’album con le sue foto preferite, né la scatola contenente le cose di valore, tra cui la medaglia che aveva vinto nelle Olimpiadi che si erano tenute nella sua città natale, Sarajevo, nell’ormai lontano 1984. Poteva soltanto prendere lo stretto necessario e scappare. Non le avevano detto dove erano diretti, sapeva solo che doveva sbrigarsi. Non era poi cosi importante dove andavano, e anche se lo fosse, cosa cambierebbe? Non aveva l’altra scelta tranne che sbrigarsi, ma non era per niente facile. Non era facile lasciare tutto e partire d’improvviso come se tutti quegli anni di vita, venti due per esattezza, non avessero alcun significato. Sua famiglia almeno aveva la possibilità di andarsene, ma gli altri? Gli altri sarebbero rimasti. Anche Selma voleva restare, ma non gliel’avevano dato quella possibilità. Almeno era riuscita a prendere la medaglia d’argento dalla scatola e a metterla al collo. Era il suo portafortuna di cui avrà bisogno in quella nuova vita che l’aspettava lontano dalla sua Sarajevo. Un giorno sarebbe tornata a casa però ora doveva andarsene, anche se le costava molto.
Non era facile lasciare tutto alle spalle come se non fosse successo nulla, come se non esistesse nulla. Era come se qualcuno avesse cancellato con una gomma magica tutto quello che Selma era, che era il suo passato a cui non aveva più alcun diritto. Non poteva credere che la stupida guerra civile la stesse allontanando dalla città che era il suo centro dell’universo, dal ragazzo che amava con tutta se stessa ma ormai il loro amore non era più possibile. Josip era un nemico, il nemico che le ha spezzato il cuore e le ha causato tanto dolore come nessuno prima. Doveva dimenticarlo al più presto, come doveva dimenticare la loro città, e andare avanti con la propria vita sperando  in un futuro migliore che porrà fine all’inferno chiamato guerra. Un bel giorno potrà tornare a casa, ne era convinta.
“Selma, sbrigati per piacere. Si sentono gli aerei di nuovo. Se dovessimo passare ancora una notte così mi verrebbe un attacco cardiaco.”
“Sì, mamma. Sto arrivando.” Prese il vecchio diario che testimoniava l’amore che la legava a Josip e lo mise nella tasca della giacca.
Un giorno sarebbe tornata, quel giorno in cui l’assurda guerra civile avrebbe avuto la fine.

Stava davanti al portone dell’università, come d’accordo con Tijana, e l’aspettava con ansia, anche se non aveva nessun dubbio che sua ragazza gli avrebbe portato solo buone notizie. Era una ragazza intelligente che aveva faticato tanto affinché si realizzassero i suoi sogni e il successo era più che garantito. La vide da lontano scendere lentamente le scale e non poteva che pensare quanto ne era orgoglioso. Gli apparve bellissima in quel vestito rosso  che le aveva regalato sotto il quale si poteva già intravedere la pancia. Le corse in contro correndo e l’abbracciò forte. Dal suo sorriso allegro Miloš capì che tutto era andato come previsto.
“Congratulazioni amore mio! Ce l’hai fatta!” Stavano abbracciati sulle scale della facoltà di Scienze Politiche e piangevano entrambi dalla felicità.
“Ancora non ci posso credere Miloš. Mi si è appena realizzato un sogno. Credo che papà sarebbe orgoglioso di me.”
“Non ho alcun dubbio al riguardo, tesoro. Però credo non vorrebbe vederti piangere, perciò pulisciti il viso. Stasera si festeggia! Voglio vederti sorridere!”
Era il più bel giorno nella vita di Tijana. Sarebbe stata ancora più felice se avesse potuto condividere il suo successo con il padre scomparso. Erano passati ormai sei mesi, sei lunghi mesi dall’assassinio di suo padre e ancora non poteva accettare la realtà amara. Purtroppo, lui non c’era più e non sarebbe mai tornato. Se almeno fosse ancora vivo ora che avrebbe avuto bisogno di lui più che mai.
“Va bene, stasera usciamo e festeggiamo insieme agli altri, mi sono già messa d’accordo con loro, però ora vorrei restare un po’ da sola se non ti dispiace. Passami a prendere alle dieci, va bene?”
“E dove vai ora se non è un segreto?” Domandò Miloš facendo finta di essere geloso.
 “È un segreto!”
Dove andava? La giornata era piuttosto lunga, sufficientemente per andarlo a trovare, per mettere un mazzo di fiori sulla sua tomba e per fare quattro chiacchiere insieme a lui. Per parlargli come faceva prima della sua morte. Nei primi giorni dopo il funerale andava di nascosto al cimitero, si sedeva sulla tomba del padre e piangeva a lungo. E allora, per qualche motivo, aveva iniziato a parlargli, come se lui fosse stato ancora vivo e là accanto a lei. All’inizio provava una vergogna tremenda ogni volta che qualcuno la vedeva in quel stato ma col tempo aveva capito che era l’unico modo per liberarsi dal dolore che provava. Era l’unico modo per dimenticare. Era l’unica maniera per sentire quella intimità che da sempre li univa. Dal momento in cui aveva scoperto i risultati dell’esame d’ammissione progettava quell’incontro con lui e non vedeva l’ora che succedesse. Aveva molte cose da raccontargli. Se fosse stato ancora vivo di sicuro sarebbe stato orgoglioso di lei e quella certezza le dava pace in quei momenti difficili. Solo per lui, per la mamma e per suo fratello Aleksandar, per il bambino che portava in grembo, che Tijana viveva. Erano loro sua famiglia, il suo unico punto di riferimento. Loro rappresentavano l’unico mondo che lei conosceva, l’unico mondo che le apparteneva, e ne era felice                .


                                   *

I massacri e gli omicidi. Gli orfani senza un padre o una madre. I profughi. Se penso che non avrei mai sentito quella parola orribile, profugo, se non ci fosse stato per questa guerra assurda. Che cavolo significa essere un profugo? Pensavo che non lo avrei mai scoperto, almeno non in questa maniera. Ogni giorno tanti di quei profughi arrivano nel nostro paese. Mi ricordano le formiche, migliaia e migliaia di quelle macchine piene di gente che ogni giorno oltrepassano i nostri confini     . Stanno scappando con la speranza di trovare la loro felicità nella nuova Jugoslavia, nella nostra città che come al solito, a braccia aperte, accoglie tutti.   Stiamo aiutando a tutta quella gente dell’altra sponda del fiume Drina che è rimasta senza il focolare domestico dal quale sono stati mandati via dai soldati nemici del nostro Marescialo perché si tratta del nostro dovere cittadino. Stiamo aiutando i nostri fratelli Serbi ma chi aiuterà a noi?               Noi che, a dire la verità, non siamo ancora in guerra ma è solo la questione del tempo quando saremmo costretti a combattere per lui, per i suoi ideali, per la sua grande Serbia per la quale i nostri cari stanno combattendo sul fronte. Noi che una volta gli avevamo dato la nostra fiducia, ma che ora si sta sciogliendo come una bolla di sapone con cui giocavamo da bambini. Alla fine, come dare la fiducia a uno che ci sta sacrificando coscientemente per ottenere i propri scopi? Alcuni possono anche farlo, coloro che si sono arricchiti grazie al suo regime. Coloro che ritengono sufficiente il fatto che è riuscito a salvarci dalla guerra che ora si stava impossessando delle ex-repubbliche sorelle. Coloro che credono che lui sia il Dio, il grande Serbo che avrebbe dato la propria vita, ma non la propria sedia da presidente, per la patria.                                                          
E gli altri, dove sono? Quelli che a malapena arrivano al fine del mese? O quelli che hanno perso qualche familiare in questa sanguinosa ed assurda favola alla quale non si vede la fine? E io e quelli simili a me che da un anno non hanno alcuna notizia dalle persone care che combattevano su questo nuovo fronte di Salonicco, ovvero di Slobodan? Io non posso, anche se mi ordinassero di farlo, credergli anche se, francamente parlando, non è sua la sua perché Darko aveva deciso di arruolarsi tra le forze di Arkan[1], però lui rimane l’unico colpevole perché ci troviamo implicati in una guerra che non volevamo. La colpa è esclusivamente sua e dei suoi vecchi amici con i quali sta combattendo fino all’ultimo goccio di sangue, fino all’ultima vittoria, quella sua. Nonostante le vittime, nostre o loro. Nonostante vi fossero centinaia e centinaia di famiglie che hanno perso la pace familiare delle quali  lui se n’è completamente dimenticato. Sua famiglia è riunita e al completo, sua famiglia vive in pace e tranquillità. Gli altri non hanno alcuna importanza per lui. Noi non siamo importanti. Sembra che non lo saremo mai. E nonostante tutti i nostri sforzi, le nostre proteste, pare che tutto sia invano. La nostra vittoria è lontana, molto lontana però io non perderò mai, finché sarò in vita, la speranza. Forza Bisanzio!



Stavano per festeggiare il loro quinto anniversario matrimoniale. Il tempo era passato così veloce che la signora stessa, il suo nome era Divna che in serbo significa meravigliosa, non se n’era accorta. Era  piuttosto incredula, le sembrava impossibile che già da più di cinque anni stavano insieme. Però questa era la pura verità che la rendeva felice, anche se tempo fa credeva che non avrebbe mai più ritrovato il proprio senso della vita. Per tutto quel benessere interiore poteva dire grazie solamente ad un uomo, allo stesso uomo che le stava accanto e che si chiamava Milan. Le aveva ridato la speranza, l’amore e la fiducia che aveva perso dopo un matrimonio fallito, non per colpa sua. Dopo essersi lasciata con Goran, voleva soltanto dimenticare e starsene da sola. Per questo era tornata nella sua città natale, Sremski Karlovci, dopo che aveva messo la propria firma sui documenti per il divorzio.  Avevo  deciso di riaprire la casa in cui era cresciuta per la prima volta dopo la scomparsa dei genitori in quel terribile incidente ferroviario. Aveva accettato il posto della professoressa della lingua francese in quel vecchio liceo che lei stessa frequentò perché voleva iniziare a vivere, voleva ricominciare da capo la sua vita che si era fermata quel giorno in cui aveva detto quel “sì”  a Goran.
Proprio là, in quel vecchio liceo conobbe Milan che insegnava la musica. Non ci è voluto tanto purché diventassero amici, e dopo anche una copia. Erano proprio fatti l’uno per l’altra. All’inizio, Divna era spaventata, il che era normale dopo che aveva avuto quella brutta esperienza del matrimonio fallito. Non era l’unica, anche Milan provò la sua stessa paura, soprattutto dopo la reazione iniziale di sua moglie d’allora Natalia, la famosa cantante lirica serba, che aveva minacciato, quando aveva scoperto la sua relazione clandestina con la bella professoressa, di portare  con sé a Belgrado i loro figli Siniša e Sofia. Per fortuna, dopo qualche screzio, erano riusciti a risolvere i loro problemi per il loro bene ma soprattutto per  il bene dei loro figli. Sofia si era trasferita dalla madre a Belgrado, e Siniša era rimasto a Novi Sad con Milan. Qualche settimana più tardi, seguendo il suggerimento del compagno, anche Divna si era trasferita da loro. Quando il divorzio di Milan fu effettivo,  si sposarono a Sremski Karlovci nel giorno del 31-esimo compleanno di Divna. Sette mesi dopo arrivò Jasna, la bimba che aveva cambiato completamente la loro vita. E ora, mentre sulla torta brillavano le candele, 36 per ogni anno di vita,  Divna poteva solo ringraziare il Signore che allora decise di darle un'altra opportunità.


 Finalmente aveva avuto il coraggio di avvicinarsi, con un passo lento e un po’ indeciso, al ragazzo che gli stava vicino. Da quando i suoi avevano deciso di trasferirsi da Sarajevo a Zagabria non aveva avuto amici, né la voglia di conoscere qualcuno, però per qualche motivo che Josip ignorava, il ragazzo bruno gli somigliava, forse anche troppo. In lui vedeva se stesso e da giorni aveva la voglia di conoscerlo. Pure lui sembrava di essere introverso, chiuso in sé, e da quando erano iniziati i corsi alla facoltà di medicina non aveva parlato con nessuno, proprio come Josip. Entrambi erano emarginati dagli altri studenti che li chiamavano con i nomi oltraggiosi. Per tutti erano due ragazzi strani soltanto perché non erano del posto ma erano i profughi, uno stato che li diversificava dagli altri. Josip stava male per quel trattamento che non si meritava, però teneva tutto dentro, tutto la rabbia e il dolore che provava. Avrebbe tanto voluto aprirsi con qualcuno, condividere con qualcuno il fardello che portava sull’anima, però tutti i suoi amici o erano scappati da Sarajevo, come lui, o ci erano rimasti. Il ragazzo bruno, con gli occhi castani, ecco lui avrebbe potuto diventare un suo amico, pensava Josip. Anche i suoi occhi erano tristi, anche lui soffriva, lo si leggeva sul suo viso. Erano talmente simili però Josip non avrebbe potuto neanche immaginare che i loro destini un giorno si sarebbero incrociati.
Dražen aveva notato il ragazzo biondo quando aveva già fatto il primo passo. Gli stava venendo incontro con un passo indeciso, sorridendo a malapena. Dražen ricambiò il sorriso, per incoraggiarlo. Dal primo giorno aveva avuto la simpatia per Josip e sperava che prima o poi sarebbero diventati amici. Per dire la verità, non credeva che sarebbe successo così presto, però lo rallegrava il fatto che il simpatico Bosniaco aveva fatto il primo passo. Quando finalmente erano di fronte l’uno all’altro, non vide l’ora di stringergli la mano.
“Piacere, mi chiamo Dražen. Tu sei Josip, è vero?”
“Sì, mi chiamo Josip. Mi sono trasferito a Zagabria da Sarajevo.” 
“Ho notato subito che non sei di qui. Non lo sono neanche io, vengo da Belgrado.”
“Me ne sono accorto subito, hai un accento diverso.” Sorrise Josip e aggiunse vergognandosi di quello che aveva detto prima. “Scusami, non volevo ferirti.” Disse.
“Perché mi chiedi scusa? Non è affatto necessario.” Anche Dražen sorrise. “So che non parlo come nostri amici. Non mi sono neanche sforzato per imparare questa nuova lingua che ha un sacco di nuove parole buffe. Ho paura che dr. Tudjman non sarebbe orgoglioso di me.”
“Siamo in due allora.” Replicò Josip. “Qui è tutto nuovo per me. Ad essere sincero, non vedo l’ora che finisca questa guerra e che io torni a casa mia.”
Si comprendevano a meraviglia. Anche Dražen aveva lo stesso sogno, di poter tornare a casa un giorno, però più i giorni passavano, più si rendeva conto, e sicuramente non era l’unico, che non si vedeva l’uscita dal labirinto in cui si trovava grazie ai grandi politici della penisola balcanica che un giorno avevano deciso, per le ragioni che solo loro conoscevano, di giocare alla guerra e si erano talmente immersi nel gioco che non riuscivano a porgli fine. Ciò nonostante, non poteva deprimersi. Alla fine, non  era lui quell’ottimista? Non era proprio lui quello che insisteva sull’ottimismo che spesso mancava alle persone care che lo circondavano? Adesso doveva influenzare se stesso perché doveva essere forte, doveva combattere fino alla fine purché un giorno la sua vita ritorni alla normalità di allora.



                                                *

Tijana da giorni faceva finta di non vedere quello che succedeva a casa sua da settimane, però non le andava per nulla a genio che quella carogna di ministro stava ancora frequentando sua madre. Pensava che la loro liaison avrebbe durato poco, però con il passare del tempo si era resa conto che la cosa era molto più seria di quello che pensava. Quasi ogni sera, al suo ritorno a casa, lo trovava lì, nel soggiorno, insieme alla madre. Allora, lui rimaneva anche a cena, e spesso anche pernottava lì. Ogni volta che Tijana voleva affrontare l’argomento con la madre,  lei cercava invano di difendersi dicendo  che lei e Jovan, questo era il nome del nuovo conoscente della madre, erano soltanto amici. All’inizio Tijana era confusa ma provava una rabbia sfrenata nei confronti della madre perché non rispettava la memoria del padre e marito scomparso. Non era passato neanche un anno ed era già riuscita a scambiarlo per quel tipo noioso di Jovan. Ripensandoci, però, ero giunta alla conclusione che doveva, nonostante il dolore che provava, accettare la scelta della madre che aveva tutto il diritto di rifarsi la vita accanto ad un altro uomo. Anche Saša era d’accordo con la sorella nonostante entrambi non sopportassero la presenza di Jovan a casa loro. Dovevano, a malincuore, adattarsi alla nuova situazione per cercare di mantenere la pace familiare che si era inclinata dopo la morte del padre.
La pace, purtroppo, non durò a lungo. Loro madre iniziò a cambiare. D’improvviso, il baricentro della sua vita diventò il suo nuovo compagno.  I suoi figli e le loro opinioni erano diventati secondari. Non tardò molto che scoppiò il litigio che fece andare da casa suo fratello maggiore e ormai da due giorni non aveva le sue notizie. Tijana era preoccupata però sua madre sembrava che non se ne importava. Era come se Aleksandar non fosse suo figlio e tutta quella indifferenza la scioccò. Suo fratello non era un bambino, sapeva arrangiarsi in qualsiasi situazione. Lo conosceva bene, sapeva che non era capace di combinare i guai, però lo stesso  non riusciva a mantenere la calma. Il ricordo di litigio dell’altra sera non l’abbandonava anche se cercava di dimenticare.
“Stai bene? Sei un po’ pallida. Credo che dovresti visitare il medico.”  Le disse Miloš quando quella mattina si incontrarono nella piazza di Terazije. 
“Sto bene però non dormo bene da due giorni.” Sul suo viso era ben visibile la preoccupazione per il fratello scomparso.
“Non ci sono ancora le notizie di Saša?” La risposta ormai la conosceva ma non poteva rivelarle che era implicato nella scomparsa di suo fratello.
“No.” Tijana fece il segno con la testa. “Ho telefonato a tutti suoi amici, a tutti amici nostri, ma niente, tutto era invano. Sembra che nessuno sappia dove si trova. O forse lo sanno però stanno zitti.”
Comprendeva la sua preoccupazione però non poteva dirle quello che sapeva, anche se la verità poteva calmarla. Non poteva rompere la promessa che aveva fatto ad Aleksandar.




[1] Capo delle forze paramilitari, N.d.A. 

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