lunedì 28 marzo 2011

Maledetta primavera

Caro diario,
È cominciata una delle belle stagioni, la primavera. A certe persone questa stagione piace molto, evoca in loro dei bei ricordi, delle sensazioni piacevolissime. È la stagione che risveglia buon umore, che porta, dicono, le novità in amore. Tutto sommato, per maggior parte della gente, è una stagione positiva. A me, però, non è mai piaciuta molto, né credo che dagli ultimi eventi cambierà qualcosa. Per me era e resterà una stagione maledetta.
Perché di questo risentimento in me verso i mesi di marzo, aprile e maggio, ti chiederai. Il primo dispiacere mi portò il lontano 22 marzo dell’anno 1990. In un ospedale di Belgrado, proprio quel giorno, la leucemia aveva portato via mio nonno, un uomo meraviglioso che amavo tanto, così tanto che non ebbi il coraggio di andare al suo funerale. Ero una bambina all’epoca, avevo dieci anni compiuti, piena di rabbia. Non volevo che se ne andasse così, senza poterlo salutare ed abbracciare. Mi rifiutai di vederlo morto. Volevo ricordarlo così,com’era, bello e generoso. Volevo e invece, chissà se per il dolore, o per lo shock, lo cancellai inconsapevolmente dalla mente. Ricordo il suo viso dalle foto. Almeno qualcosa è rimasto. Meglio di niente.
Era sempre la primavera quando, nel 1993, fui operata al piede all’ospedale di Tiršova a Belgrado, che ricordo come un periodo molto triste in cui una grande donna della mia vita mi restò sempre accanto. Mi curò con tanta premura e dedizione quando in estate fui dimessa dall’ospedale. Era lì felice ad abbracciarmi quando feci da sola i miei primi passi. Mi incoraggiò ad andare avanti, nonostante tutte le difficoltà che avevo, non solo all’epoca.
Sei anni più tardi, ormai ero grandicella, la primavera mi portò di nuovo delle grandi delusioni e tristezze. Fu la primavera in cui il mio paese fu bombardato per i vari mesi. Era sempre marzo, il 24esimo, quando sentì la maledetta sirena e quell’aereo che sorvolava la città in cui studiavo. Uno di quegli aerei che il primo aprile distrusse il mio ponte preferito sul Danubio, che collegava Petrovaradin a Novi Sad, che chissà quante volte passai in una delle mie passeggiate diurne. La stessa primavera che aspettai la mamma che tornava dall’Italia con il cuore nella mano. La odiai, quella primavera, dicannovesima della mia vita. Ma non ero sola, avevo le persone più importanti accanto. Come sempre.
La primavera del 2003, mentre ero a Gorizia dove frequentavo l’università, mi portò delle brutte notizie. Mia madre, la donna che mi aveva dato la vita, quasi perdendo la sua, che mi appoggiava in tutto, anche quando ero disabile e non potevo camminare dalla nascita fino ai miei quattro anni, era ricoverata d’urgenza all’ospedale di Trento per il maledetto ictus che la colpì di sorpresa. Non poteva parlare, né camminare. Stessi molto male. Persino mi rifiutavo di mangiare e le amiche mi portavano con forza fuori. Ero debole. Non riuscivo ad accettare che una persona forte come mia madre, che era sempre attiva, fosse ridotta così. Non riuscivo nemmeno a guardarla. Ero una codarda. Feci le valige e scappai in Serbia. Una cosa che non perdonerò mai a me stessa.
È sempre la primavera, la primavera del 2011. Era un sabato come tanti. Un sabato in famiglia. Mamma stava cucinando, papà era a fare delle spese, io là, con lei, a chiacchierare. Mi ero assentata per un attimo, in camera mia, per mettere il telefonino in carica. La sentì gridare e corsi in cucina. Il fuoco le aveva preso la maglietta a maniche corte che le avevo portato dalla Russia, e cercava di sfilarsela. I suoi capelli avevano già preso il fuoco, e anche la sedia vicino. Mi bloccai dalla paura per un istante. Penso di averla anche toccata. Sul tavolo c’era la bottiglia d’acqua e la presi con le mani che mi tremavano. Avrei potuto prendere il cuscino, avrei potuto fare altro. Riuscì però a spegnere il fuoco e a cercare il telefono per chiamare l’ambulanza. Quello stesso giorno, una settimana fa quasi, la portarono a Verona. Per fortuna non è grave, poteva essere molto peggio. Guarirà. Ci vorrà del tempo, però vinceremo anche questa battaglia. Forse avrei potuto fare di più. È da giorni che ci penso e ripenso, cercando di mandare indietro il film di quel pomeriggio, ma non ci riesco. Ho un buco nella memoria. L’importante è che lei è viva, che passerà anche questo. Il resto non conta.
Forza grande donna. Ora ci sono io con te. Ora sono più forte, e sai che ci puoi contare. La casa è così vuota senza te. Mi manchi però ti parlo, sai. Parlo con tua foto. Sono convinta che tu possa sentirmi, mamma. Un giorno ricorderemo questo episodio con un sorriso. E sai che, con quel nuovo look, i capelli corti, somigli proprio a Sharon Stone. Macché, sei più bella di lei.
Che il Dio ti protegga, mamma.

sabato 19 marzo 2011

Nostalgia canaglia

Caro diario,

Oggi è venerdì, il 18 marzo. Una giornata all'apparenza normale, come tutte le altre, però non lo è. È una giornata speciale. Oggi compie gli anni una mia amica, una amica che conosco da troppo tempo, da quasi quindici anni. Lei si chiama Ljiljana e la conobbi quando avevo sedici anni tra i banchi di un liceo linguistico in una cittadina del nord della Serbia. Sono due anni che non la vedo, da quando sono stata per l'ultima volta in Patria e mi rendo conto quanto mi manca, anche se ora stiamo un po' più vicine visto che lei ora vive in Francia. Ci sentiamo spesso, però, grazie allo skype. Quando mi sono trasferita in Italia ci scrivevamo delle lettere e ogni tanto, quando sento una nostalgia forte, un po' come oggi, le rileggo. Anche oggi l'ho sentita, l'ho vista attraverso lo schermo del portatile, ma non so cosa darei per poterla riabbracciare o tirarle le orecchie, come si deve. Maledetta nostalgia.

È tutto il giorno che mi sento così, da quando Ilaria, una ragazza italiana che ha fatto la mia stessa università e che vive proprio a Novi Sad dove è nata Ljiljana, mi ha invitato a far parte di un gruppo sul facebook dedicato alla gente che si sente Italoserba, o Serboitaliana. Mi è bastato vedere quella foto della Fortezza di Petrovaradin per sentire un magone in gola, per rendermi conto di non essere così forte come cerco di apparire, per capire quanto mi manca quella città che all'età di 16 anni mi aveva accolto a braccia aperte. La stessa città che durante i bombardamenti della Nato nel '99 mi aveva protetta per una settimana. Ho cercato di ripercorrere almeno col pensiero le strade di quella cittadina chiamata Sremski Karlovci, dove andai a liceo e vissi per quattro bellissimi anni. Ho cercato di evocare dalla memoria quella felicità che provavo camminando sul vecchio ponte che collegava Petrovaradin e Novi Sad, quello che hanno distrutto con le bombe quel primo aprile che non scorderò mai. Mi sono trattenuta dalle lacrime, anche se bastava poco per aprire “česma“ e mettermi a piangere. Ho pensato alla summer school che feci a Belgrado due anni fa e a quella gita a Fruška gora dopo la quale visitammo il mio vecchio liceo a Karlovci. Gli altri studenti si meravigliarono quando mi sentirono cantare una canzone, il vecchio inno della scuola, che sempre mi commuove. Ho pensato a molte cose, molti profumi, i paesaggi, alle passeggiate che facevo lungo il Danubio. Quanto amavo e quanto tutt'ora amo la Vojvodina che aveva accolto me, una ragazzina impaurita della Šumadija, con tanto amore. Maledetta nostalgia. Maledetta.

Mi viene in mente quella canzone italiana che proprio dice che la nostalgia è una vera canaglia. Quell'emozione strana che provo verso la Serbia, quando sono qui, e viceversa. Quante volte essendo in vacanza in Serbia sentivo la mancanza dell'Italia, mi mettevo a seguire il tg della RAI e gli amici mi prendevano in giro. A volte mi sento proprio così, come se fossi divisa tra i due mondi, quello Balcanico e quello occidentale. Quando mi chiedono di dove sei, quante volte mi è capitato di dire che mi ritengo una persona fortunata per aver due case: una serba, dove sono cresciuta, e l'altra italiana dove vivo con i miei. Mi batte forte il cuore quando, andando in vacanza, là alla frontiera croato-serba, vedo l'insegna con scritto su SERBIA. E quando si rientra, quando vedo la scritta con Trentino-Alto Adige, quasi con l'orgoglio a volte dico:”Eccola, la mia regione. Siamo quasi arrivati a casa.” Quando ho visto l'invito di Ilà per far parte del gruppo di Italoserbi -Serboitaliani, non ho potuto fare a meno di pensare proprio a quello. Eh, sì, sono davvero una persona fortunata, io. Un po' serba, un po' di più e sono orgogliosa delle mie origini, e un po' italiana. Se penso che i primi anni portavo con sé in Serbia i sacchi di pasta e quando Ljiljana, e l'altra nostra amica Katarina venirono a trovarmi a Kraljevo, le feci mangiare solo quella. Quanto mi prendevano in giro, per forza. Non ero proprio una cuoca provetta all'epoca.

Eh, sì. Mi sa che oggi sono proprio nostalgica, eppure troppo. Non importa. Era da tempo che non mi sentivo così. Maledetta nostalgia.

Auguri cara amica mia. Se il Dio lo vorrà, ci vediamo a Novi Sad in estate. Buona notte amatissimo paese mio, a presto.

giovedì 17 marzo 2011

The sense of life

Dear diary,

It’s been a while since my last confidence. It’s not that I was lazy. Sometimes even that can happen. I just had nothing to say. There have been the weeks of silence, I know. Important is that am here again, alive and willing to share my thoughts with you, as usual.

I have a constant thought that has been going through my mind for days, regarding the sense of life. We get born, starting our journey crying, surrounded by our loving and carrying parents. Then first we are just kids who believe that everything is so nice and fabulous, but as we grow up, we start looking the world with totally different eyes. The eyes of grown up men and women. Suddenly we are more realistic, sometimes less optimists, and what we see can cause us a big and profound sense of bitterness, helplessness. That’s exactly what I feel these days. I feel so helpless, and I believe not to be the only one. What has happened in Japan, the strong and not easy forgettable earthquake that has caused tsunami, that has taken away the innumerous victims, made me feel so impotent. It’s not the first time I felt like that. I felt exactly the same when the earthquake hit Aquila, as when my hometown Kraljevo in Serbia had the same destiny last November. People say that the earthquakes are something caused naturally, something that can’t be avoided, but that doesn’t help me feel better, nor will help people who lost their families and friends in some national disaster. What’s happening in Japan is even more serious, since there’s also the possible nuclear catastrophe to be taken into account. I was a kid when there was the same situation with Chernobyl in Ukraine, and don’t remember much. But I’m not the child anymore, and I’m quite aware of consequences that the Fukushima may leave behind. What’s then the sense of life if it can be destroyed “just like this”? Once there are you, happy and alive, and in the very next moment you are gone. For good.

Life is, however, something very precious. Life is a very special gift that we need to respect. Life is to be lived, no matter what happens. Life is a miracle. Just think of that priceless moment when a child is born. Life may be long or short. You can never know when it will be your last day so live every and each day of your life as it might be the last. Don’t regret. Everything you do, every moment of your life, was worth of. And be happy because the fact that you wake up alive, surrounded by people you love, make of you the happiest and richest people. Don’t be selfish, or greedy. Give, even if it’s the small amount of money, to people who are in need. Helping people is such a great feeling. Be noble. Don’t think that if Japan, am just quoting the current situation, is far away from you that you should not care about it. Remember that we are destroyable. We are not machines, robots. We are humans. We have feelings, emotions. We are alive, as long as it is meant to be.

Life may bring us sorrow. Life may make us suffer. Life may come to an end in one instant and take away from us our beloved. Life may bring us joy, happiness and love. Life is the gift and sometimes we are not aware how precious it is. Life is to be lived today, not yesterday, not tomorrow. Life is now. Live your life the best way you can, it’s the only one you have. Keep it always on your mind.

And don’t forget a prayer. Pray for people who are not as lucky as you are, who lost their lives in Japan and not only. And help, if you can, people who survived this catastrophe. They can and have to live again.

May God bless us all, where ever we are.

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